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venerdì 18 maggio 2018

Avere un «grande» cervello dipende anche da quello che si mangia


Uno studio olandese mostra un legame tra dieta sana e volume encefalico: scoperta importante specie per gli anziani che combattono con la riduzione dovuta all’età.

Volete diventare dei «cervelloni»? Fate più attenzione a quello che mangiate. E quando si dice cervellone si intende “one” proprio fisicamente e cioè con un volume superiore alla media ( dato ovviamente depurato da fattori confondenti come dimensioni della scatola cranica e corporee in generale) . E se avere un cervello grande non vi sembra poi tanto importante, perché conta di più la ricchezza in connessioni nervose, sappiate che molti studi hanno dimostrato che le abilità cognitive dipendono anche dal volume encefalico.

L’analisi

A porre l’accento su questo nuovo legame tra alimentazione e intelligenza è uno studio, appena pubblicato su Neurology on line, che ha coinvolto più di 4.000 Olandesi con un’età media di 66 anni. I partecipanti alla ricerca hanno riferito quanto e che cosa avevano mangiato nel corso di un intero mese e hanno ricevuto un punteggio da 1 a 14 in base all’aderenza della loro dieta al modello proposto dalla Linee guida olandesi ( molto simile a quello della dieta mediterranea), che privilegia la presenza di vegetali, prodotti cereali integrali, legumi, frutta secca a guscio, latte e derivati, pesce e te e , di contro, la riduzione di grassi insaturi, salumi e salsicce, bevande zuccherate e alcoliche e sale. In media, chi ha partecipato all studio ha ottenuto sette come votazione.

I criteri

Tutti soggetti del ricerca sono poi stati sottoposti a risonanza magnetica per valutare il volume del cervello ( valore medio: 932 millimetri). Depurati i dati da elementi che avrebbero potuto alterare i risultati come ipertensione, fumo, attività fisica), i ricercatori sono giunti alla conclusione che chi si era meritato un voto più alto per le proprie abitudini alimentari aveva effettivamente (e in media) un cervello più grande di due millimetri. E un volume encefalico di 3,6 millimetri più piccolo corrisponde, a pari età anagrafica, a un anno in più. Un’informazione da tener presente soprattutto se si è anziani (come i partecipanti alla ricerca) perché con gli anni il volume encefalico si riduce, ma che può tornare utile a tutti visto che invecchiare ( si spera) tocca a tutti.

Le conclusioni

I ricercatori tengono però a sottolineare che non è stato assolutamente individuato “un” cibo con uno specifico valore anti-age, ma che è l’insieme della dieta a contare. Ovviamente il lavoro ha dei limiti: riporta abitudini alimentari e valutazioni relative a un breve periodo di tempo si basa su report autoriferiti. E, come dicono gli stessi autori, per ora è stata dimostrata solo un associazione tra dieta sana e dimensioni del cervello e non un legame di causa effetto.

https://www.corriere.it/salute/neuroscienze/18_maggio_15/dmensioni-cervello-dieta-7de7f39a-5847-11e8-9f2b-7afb418fb0c0.shtml

mercoledì 21 marzo 2018

Quando l’amore conta più del colesterolo

http://www.corriere.it/cronache/18_marzo_18/amore-conta-piu-colesterolo-1827f5d8-2a24-11e8-a69c-c536cc584d87.shtml


Quando l’amore conta più del colesterolo
Il segreto per vivere bene? Legami affettivi forti. Lo affermano gli scienziati di Harvard in uno studio iniziato 80 anni fa (con lo studente John Kennedy)


Non chiedetemi come hanno fatto, certo è che ci sono riusciti. L’idea dei ricercatori di Boston era assolutamente lungimirante e l’obiettivo davvero ambizioso: capire cos’è che ci consente di vivere bene e a lungo. Così gli studiosi dell’Università di Harvard hanno preso nota di tutto quello che succedeva ai quasi 300 studenti ammessi al College tra il 1938 e il 1944: stato di salute — fisica e mentale — lavoro, famiglia, amici e tanto d’altro (lo studio va avanti da 80 anni e non si fermerà, pare, tanto presto).

E cosa hanno scoperto? Quello che avevano già capito i Beatles: «Love, love, love», insomma, è l’amore a farti vivere bene. Non solo ma l’educazione è più importante dei soldi e dello stato sociale, mentre la solitudine uccide, proprio come l’alcol e il fumo. «Non basta essere brillanti per invecchiare bene — ha scritto George Vaillant, uno di coloro che si sono avvicendati a capo di questa avventura — devi essere innamorato, o comunque avere relazioni affettive forti, in famiglia (padre e madre naturalmente, ma anche fratelli, sorelle, zii, cugini e tutti quelli che ci vengono in mente) e fuori, e poi tanti amici». «Ma non dovevano essere i livelli di colesterolo e la pressione alta a far male?» direte voi. Sì certo, ma l’uno e l’altra a detta degli studiosi di Harvard contano meno della famiglia o dell’avere un legame affettivo stabile per esempio. Insomma è come se a tutti i consigli, comunque preziosissimi, di tanti bravi medici per invecchiare bene «non fumate, bevete poco alcol, e poi frutta, verdura e pesce, e attività fisica» ne mancasse uno che è forse il più importante: «Dedicate tempo ed energie ai vostri rapporti con gli altri». Sul lavoro? Certo, ma anche fuori se volete, non importa.

I vantaggi per la salute

Imparare a farlo avvantaggia specialmente il cervello e gli scienziati l’hanno documentato con test di performance intellettuale e con tanti altri esami incluso l’elettroencefalogramma (che hanno ripetuto periodicamente per 80 anni!). Anche i rapporti sociali dei più piccoli sono importanti — con gli altri bambini o con gli adulti non importa, l’importante è che ne abbiano — più fanno esperienze diverse e più giocano, meglio è. Nessuno studio è perfetto e non lo è nemmeno lo studio «Grant» non fosse altro perché quanto abbiamo scritto finora potrebbe valere solo per i maschi in quanto al College a quei tempi ci andavano solo gli uomini — tutti fra l’altro bianchi — gente altolocata di solito (uno dei primi a prendere parte allo studio fu un certo John Fitzgerald Kennedy, sì, proprio lui, il futuro Presidente degli Stati Uniti e poi Ben Bradlee per moltissimi anni direttore del Washington Post). E gli altri? Ci sono stati grandi imprenditori, avvocati di grido e medici famosi, ma c’era anche gente normale e persino certi che poi ebbero una vita miserevole: alcolizzati per esempio o drogati o schizofrenici.


Nei sobborghi

Col passare degli anni lo studio si è arricchito di molte altre persone, anche donne e di un’attività parallela «Glueck» cui hanno preso parte soprattutto ragazzi, questi però vivevano nei sobborghi di Boston e, come potete immaginare, il confronto fra loro e quelli del College ha fornito indicazioni preziose. Vi chiederete dove gli studiosi abbiano trovato i fondi per fare tutto questo e per poter andare avanti per così tanti anni. Dal governo federale in parte e poi dai National Institutes of Health e dalle tasse dei cittadini; anche se adesso c’è chi comincia a criticare questa scelta a cominciare dal presidente Trump: «Cosa continuiamo a spendere soldi per questo studio quando dovremmo invece preoccuparci di trovare nuove terapie per il cancro o per l’Alzheimer?». Se lo chiedete a Robert Waldinger, che ha seguito «Grant» per più di 30 anni, vi dirà che proprio grazie ai dati che sono stati raccolti in tutto questo tempo è stato possibile stabilire che chi è omosessuale non ha scelto di esserlo per esempio o che l’alcolismo non è una colpa ma una malattia e tante altre cose ancora.

La ricerca oggi

Non solo ma se oggi siamo capaci di interpretare almeno un po’ certe scelte di vita della gente dipende proprio dal fatto che qualcuno si è preso la briga di seguire queste persone dalla giovinezza alla vecchiaia. Il bello è che Waldinger non ha alcuna intenzione di fermarsi, adesso sta studiando i figli degli studenti del College del ’38 e persino i figli dei figli: «È entusiasmante — dice — presto avremo tantissime informazioni e sapremo rispondere a domande a cui nessuno ha mai saputo rispondere fino ad ora». E chissà che un giorno questi dati non possano persino portare un contributo allo sforzo che si sta facendo un po’ dappertutto per prevenire certe malattie — cardiovascolari e diabete per esempio — ma anche i disturbi del sistema nervoso, o per rallentare l’invecchiamento. Se fosse così avremmo un mondo migliore e i sistemi sanitari di tutto il mondo risparmierebbero tantissimi soldi.

venerdì 6 ottobre 2017

Who are the NEETs?

The concept of NEET – young people not in employment, education or training – has been useful in enabling policymakers to better address the disjunctions between young people and the labour market. While the traditional labour market dichotomy of employed or unemployed is valid, it fails to capture modern school-to-work transitions and the legions of young people who are outside the labour market and not accumulating human capital and hence who may be vulnerable to a range of social ills. In 2015, some 4.6 million young people aged 15–24 were unemployed. This is just a subgroup of the broader category of NEET, which comprises 6.6 million young people, meaning that had the concept of NEET not found currency, 2 million young people would have attracted limited attention from a policy perspective. NEET has put previously marginalised populations such as young mothers, young people with disabilities and young labour market drop-outs back into the policy debate about youth unemployment.

NEETs is a broad category encompassing a heterogeneous population. Disentangling the subgroups within it is essential for a better understanding of their different characteristics and needs, and for tailoring effective policies to reintegrate them into the labour market or education.

Identifying the subgroups also aids in identifying who is most vulnerable to poverty and social exclusion. While individuals in the NEET category often experience multiple disadvantages, including a low level of education, poverty and difficult family backgrounds, the population of NEETs is made up of both vulnerable and non-vulnerable young people who have in common the fact that they are not accumulating human capital through formal channels.

Publication: Living and working in Europe 2016

Topic: NEETs

https://www.eurofound.europa.eu/news/news-articles/who-are-the-neets

lunedì 2 ottobre 2017

MEDIAZIONE FAMILIARE per le persone più fragili

Rimettiamo il figlio al centro del diritto

«Occuparsi di diritto di famiglia significa occuparsi di relazioni umane. E le relazioni umane più delicate e più importanti sono quelle che riguardano i minori». Ecco, secondo quanto spiegato dall’avvocato Marta Giovannini, a cui ieri è toccato fare sintesi di quanto emerso dal gruppo sulla 'giustizia minorile', il tema più urgente per i giuristi della famiglia. Oggi il diritto di famiglia sta emarginando i minori. Nei tanti casi giudiziari che coinvolgono le famiglie, il criterio prevalente sembra quello adultocentrico. «Dobbiamo trovare un nuovo equilibrio tra diritto e costume, riconoscendo valore a tutte le parti in conflitto, ma soprattutto alle persone più fragili». Ecco perché i giuristi hanno chiesto innanzi tutto di valorizzare la mediazione familiare, anche quella preventiva che oggi è considerata quasi marginale. «Si tratta di una misura capace sia di prevenire il conflitto, sia di renderlo meno dirompente». La mediazione, è stato fatto notare, dev’essere un diritto soprattutto per i minori, mentre oggi non è neppure prevista. Altro tema irrinunciabile quello della disparità di trattamento tra figli nati all’interno del matrimonio e figli di coppie non coniugate. Nel primo caso, quando la coppia si spezza, della situazione dei figli si occupa il giudice. Nel secondo no, con la conseguenza che i minori rimangono spesso senza tutele. Una situazione che va corretta al più presto. Stesso discorso per lo status di figlio. È stato sottolineata l’inopportunità di esigere, come avviene ora, il riconoscimento da parte della madre quando la nascita avviene fuori dal matrimonio. Anche il diritto al parto in anonimato – hanno fatto notare gli esperti – andrebbe normato con più chiarezza. C’è poi il grande capitolo dell’affido. Quello limitato al minore, è stato fatto notare, non basta più. Occorre pensare a un affido di tutta la famiglia in difficoltà. Ci sono già esperienze in questo senso. Andrebbero fatte rientrare nella riforma in discussione.

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/buone-idee-per-rilanciare-la-famiglia


lunedì 12 giugno 2017

Caffeine Is A Silent Performance Killer

http://www.huffingtonpost.com/entry/caffeine-is-a-silent-performance-killer_us_5939aa6de4b014ae8c69debd

Need we say more? Discover how caffeine toys with your emotions and get the motivation you need to finally kick the habit.

This tip for improving your performance is the most simple and straightforward method I’ve provided thus far. For many people, this tip has the potential to have a bigger impact than any other single action. The catch? You have to cut down on caffeine, and as any caffeine drinker can attest, this is easier said than done.

For those who aren’t aware, the ability to manage your emotions and remain calm under pressure has a direct link to your performance. TalentSmart has conducted research with more than a million people, and we’ve found that 90 percent of top performers are high in emotional intelligence. These individuals are skilled at managing their emotions (even in times of high stress) in order to remain calm and in control.

The Good: Isn’t Really Good

Most people start drinking caffeine because it makes them feel more alert and improves their mood. Many studies suggest that caffeine actually improves cognitive task performance (memory, attention span, etc.) in the short-term. Unfortunately, these studies fail to consider the participants’ caffeine habits. New research from Johns Hopkins Medical School shows that performance increases due to caffeine intake are the result of caffeine drinkers experiencing a short-term reversal of caffeine withdrawal. By controlling for caffeine use in study participants, John Hopkins researchers found that caffeine-related performance improvement is nonexistent without caffeine withdrawal. In essence, coming off caffeine reduces your cognitive performance and has a negative impact on your mood. The only way to get back to normal is to drink caffeine, and when you do drink it, you feel like it’s taking you to new heights. In reality, the caffeine is just taking your performance back to normal for a short period.

The Bad: Adrenaline

Drinking caffeine triggers the release of adrenaline. Adrenaline is the source of the “fight or flight” response, a survival mechanism that forces you to stand up and fight or run for the hills when faced with a threat. The fight-or-flight mechanism sidesteps rational thinking in favor of a faster response. This is great when a bear is chasing you, but not so great when you’re responding to a curt email. When caffeine puts your brain and body into this hyper-aroused state, your emotions overrun your behavior.

Irritability and anxiety are the most commonly seen emotional effects of caffeine, but caffeine enables all of your emotions to take charge.

The negative effects of a caffeine-generated adrenaline surge are not just behavioral. Researchers at Carnegie Mellon University found that large doses of caffeine raise blood pressure, stimulate the heart, and produce rapid shallow breathing, which readers of Emotional Intelligence 2.0 know deprives the brain of the oxygen needed to keep your thinking calm and rational.

The Ugly: Sleep

When you sleep, your brain literally recharges, shuffling through the day’s memories and storing or discarding them (which causes dreams), so that you wake up alert and clear-headed. Your self-control, focus, memory, and information processing speed are all reduced when you don’t get enough—or the right kind—of sleep. Your brain is very fickle when it comes to sleep. For you to wake up feeling rested, your brain needs to move through an elaborate series of cycles. You can help this process along and improve the quality of your sleep by reducing your caffeine intake.

Here’s why you’ll want to: caffeine has a six-hour half-life, which means it takes a full twenty-four hours to work its way out of your system. Have a cup of joe at eight a.m., and you’ll still have 25 percent of the caffeine in your body at eight p.m. Anything you drink after noon will still be at 50 percent strength at bedtime. Any caffeine in your bloodstream—with the negative effects increasing with the dose—makes it harder to fall asleep.

When you do finally fall asleep, the worst is yet to come. Caffeine disrupts the quality of your sleep by reducing rapid eye movement (REM) sleep, the deep sleep when your body recuperates and processes emotions. When caffeine disrupts your sleep, you wake up the next day with an emotional handicap. You’re naturally going to be inclined to grab a cup of coffee or an energy drink to try to make yourself feel better. The caffeine produces surges of adrenaline, which further your emotional handicap. Caffeine and lack of sleep leave you feeling tired in the afternoon, so you drink more caffeine, which leaves even more of it in your bloodstream at bedtime. Caffeine very quickly creates a vicious cycle.

Withdrawal

Like any stimulant, caffeine is physiologically and psychologically addictive. If you do choose to lower your caffeine intake, you should do so slowly under the guidance of a qualified medical professional. The researchers at Johns Hopkins found that caffeine withdrawal causes headache, fatigue, sleepiness, and difficulty concentrating. Some people report feeling flu-like symptoms, depression, and anxiety after reducing intake by as little as one cup a day. Slowly tapering your caffeine dosage each day can greatly reduce these withdrawal symptoms.

martedì 30 maggio 2017

Alcuni esempi di Bitesize Learning


Tutta la vita dell’impero romano, dalla nascita nel 753 a.C. con Romolo e Remo alla fine nel 1478 coi despoti d’Epiro, riassunta e animata in questa clip postata su YouTube da EmperorTigerstar. Ripercorriamo oltre duemila anni di storia attraverso i colori delle aree che si modificano, espandendosi e ritraendosi, sulla cartina politica dell’Europa e del Nord Africa. Un viaggio affascinante per ripassare e rinfrescare quello che si è studiato nelle lezioni di storia durante gli anni della scuola.

https://www.youtube.com/user/EmperorTigerstar/featured




lunedì 13 marzo 2017

L’interfaccia cervello-computer permetterà di scrivere con il pensiero

Le persone paralizzate a causa di gravi patologie potranno in futuro comunicare in maniera sempre più rapida. Questo grazie allo sviluppo e al miglioramento di una particolare tecnologia chiamata interfaccia cervello-computer. Il meccanismo è semplice: una serie di macchinari e di software sono in grado di decifrare i segnali elettrici del cervello traducendoli in parole scritte composte su uno schermo. Una forma di scrittura con il pensiero.

“In questo studio abbiamo raggiunto una velocità e un’accuratezza tre volte più alte di tutti gli esperimenti precedenti. Ci vogliamo avvicinare alla rapidità di scrittura su un normale smartphone” sottolinea Krishna Shenoy, professore della Stanford University che insieme al dottor Jaimie Henderson ha realizzato questa ricerca, pubblicata su eLife.

LO STUDIO SUI PAZIENTI 
 
La ricerca è frutto della collaborazione tra medici ed ingegneri elettronici vista la complessità della materia. Per realizzarla sono stati coinvolti tre pazienti paralizzati: due affetti da sclerosi laterale amiotrofica e un terzo vittima di una grave lesione spinale. Per monitorare l’attività elettrica cerebrale sono stati impiantati degli elettrodi all’interno della corteccia motoria del cervello, la zona responsabile dei movimenti volontari delle persone.

È stato poi un algoritmo, istruito in maniera specifica da ognuno dei tre soggetti, a decifrare questi segnali traducendoli in spostamenti di un cursore su una tastiera virtuale presente sullo schermo. Questo software, dotato di intelligenza artificiale, è stato così in grado di simulare un ipotetico movimento di un arto per selezionare la lettera da scrivere, componendo le singole parole.

I RISULTATI E LE PROSPETTIVE

Uno dei tre pazienti coinvolti nell’esperimento è riuscito a digitare 39 caratteri in un minuto, l’equivalente di circa otto parole. Un risultato tre volte superiore ai precedenti test simili. “Questo studio rappresenta un grande successo per migliorare in futuro le condizioni di vita di pazienti paralizzati” tiene a sottolineare Henderson, che da anni lavora allo sviluppo dell’interfaccia cervello-computer.

L’obiettivo rimane quello di velocizzare sempre di più il tempo di scrittura delle persone. Ma gli studiosi puntano anche a realizzare tecnologie che siano utilizzabili, non soltanto tramite complessi e costosi macchinari, ma anche dai comuni dispositivi che adoperiamo tutti i giorni come smartphone, tablet e computer.

I passi avanti nello studio dell’interfaccia cervello-computer sono stati molti negli ultimi anni. Dei ricercatori tedeschi hanno ideato un sistema di monitoraggio dell’attività cerebrale da utilizzare in tecnologie di riconoscimento vocale. Gli studiosi del Mit stanno invece sviluppando macchine e algoritmi per facilitare la comunicazione tra persone e robot.

http://www.lastampa.it/2017/03/13/scienza/benessere/linterfaccia-cervellocomputer-permetter-di-scrivere-con-il-pensiero-IkRGWSdLmr8UHhQh9tA6bO/pagina.html